Il tasto della Xerox e il leone di Wittgenstein.
Anche la tecnologia ha bisogno di un linguaggio per parlare con gli umani?
Avete mai fatto caso alla plancia di funzionamento di una fotocopiatrice? Di solito ci sono tutta una serie di tastini più o meno colorati – zoom, livelli di nero, pinzatrice automatica, fronte-retro – quasi tutti della stessa dimensione, ma ce n’è uno in particolare che spicca sugli altri. È il tasto che impartisce il comando di copiare che ha due caratteristiche che lo differenziano da tutti gli altri: è enorme ed è colorato (verde o rosso solitamente). La domanda che ci dobbiamo porre è: perché questo tasto è così diverso da tutti gli altri? La risposta ha bisogno di tre ingredienti chiave: un centro di ricerca sull’innovazione, un problema d’uso, un’antropologa visionaria.
Primo ingrediente: il centro di ricerca. Nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, l’informatica era una serie di artefatti molto diversi tra loro, calcolatrici, computer, fotocopiatrici, fax, tutti strumenti che erano entrati con forza nel panorama organizzativo e aziendale, ma spesso non riuscivano a semplificare il lavoro d’ufficio, anzi in alcuni casi venivano identificati dei prescelti – i responsabili tecnici – che venivano chiamati per risolvere i problemi ed i rallentamenti che queste tecnologie provocavano. In questi anni per risolvere questi problemi, la Xerox, già celebre per alcune sue tecnologie informatiche, aveva fondato il PARC – Palo Alto Research Center – il cui scopo era proprio quello di migliorare le tecnologie basate sul computer approfittando del periodo di esplosione creativa che Silicon Valley stava vivendo in quegli anni.
Secondo ingrediente: un problema d’uso. Una delle tecnologie di punta della Xerox erano proprio le fotocopiatrici, utili in un mondo basato su documenti cartacei, ma avevano un grosso problema: usare queste macchine ingombranti era assolutamente controintuitivo. Cerchiamo di capirci. Se vedo una stanza sbarrata da una chiusura, la mia esperienza mi fa interpretare la chiusura come una porta, pertanto cercherò un modo per aprirla, una maniglia, un pulsante, un comando vocale. Se vedo un utensile su una tavola apparecchiata, la mia esperienza mi farà interpretare quello strumento come una posata e magari scoprirò che nonostante sembri una pinza per forzare le viti in realtà è una pinza per crostacei. Insomma le tecnologie spesso hanno degli inviti all’uso – affordance si chiamano secondo il design cognitivo – che ti suggeriscono come devono essere usate e in che contesto, poi l’esperienza – i modelli mentali – fanno il resto. La domanda è: come fai ad usare i pulsanti di una fotocopiatrice se i pulsanti sono tutti uguali – bassa affordance – e se la tua esperienza non ti aiuta a capire come potrebbe funzionare – assenza di modello mentale – quell’aggeggio enorme davanti a te?
Terzo ingrediente: l’antropologa visionaria. I direttori dello Xerox PARC ebbero un’idea tanto strana quanto innovativa: il problema non può essere risolto ricorrendo agli ingegneri, questi sono bravi ad affrontare questioni tecnologiche, ma qui c’è un problema di comprensione umana, da un lato un aggeggio per copiare i testi su carta, dall’altro le persone che lo dovevano usare, gli impiegati. Quindi il problema non è tecnico, è umano. Pertanto serve qualcuno che affronti la questione di come facciano le persone a capire la fotocopiatrice. Misero in piedi un team di ricerca fatto da sociologi, psicologi, con a capo un’antropologa innovativa come Lucy Suchman. La Suchman da brava antropologa decise di applicare i metodi dell’antropologia a questo problema, e decise di riprendere con una videocamera quali fossero le azioni – e le frustrazioni – delle persone quando si trovavano davanti lo strano oggetto della fotocopiatrice.
Volendo tradurre questa situazione in termini antropologici, la Suchman aveva deciso di applicare la tecnica dell’etnografia per capire la tribù degli utenti della fotocopiatrice e identificare quali fossero le azioni che svolgevano davanti questa macchina. Quello che i video mostrano – liberamente accessibili su YouTube – sono delle persone che sono in grado di posizionare i fogli nella macchina, in fondo la fotocopiatrice usa tecniche fotografiche perciò il modello mentale era quello della macchina fotografica, ma poi non avevano idea quali fossero le procedure successive per attivare la fotocopiatrice perché gli ingegneri avevano avuto l’idea di fare i tasti tutti uguali, come quelli di una calcolatrice o di un telecomando.
Dopo aver analizzato diverse ore di riprese video – proprio come si fa quando si studia una tribù sconosciuta – Suchman e collaboratori ebbero l’idea innovativa, un vero e proprio uovo di Colombo: il tasto principale della fotocopiatrice doveva essere enorme, posto al centro della plancia, colorato di verde. In pratica il tasto doveva urlare “mi devi premere se vuoi fare la copia!”. Ovviamente l’idea fu un successo, in seguito a quella intuizione adesso noi possiamo avere qualche problema con lo zoom dei fogli o con la pinzatura delle copie, ma non abbiamo alcun dubbio su come attivare la fotocopiatrice. Grazie al gruppo di ricerca di sociologi e antropologi dello Xerox PARC erano nate tre cose: il pulsante della fotocopiatrice (copiata anche da fax e stampanti), il concetto di interfaccia e il concetto di UX ovvero User Experience.
Non è un caso infatti che il libro del 1987 della Suchman – Plans and situated actions: The Problem of Human-Machine Communication – sia diventato rapidamente un classico del design e dell’informatica. Cosa ci insegna questa storia? Che le macchine – analogiche o digitali, poco importa – vivono in una dimensione che è profondamente diversa da quella degli esseri umani. Il termine che si usa in filosofia è mondo di vita – Weltanschauung – ovvero un concetto che indica una specifica concezione del mondo e del significato che attribuiamo ad esso. Ludwig Wittgenstein, nelle sue Ricerche Filosofiche, afferma che se un leone potesse parlare, noi non lo capiremmo, perché pur usando la nostra lingua resta sempre un leone, una creatura che esiste in un mondo di vita completamente diverso dal nostro. Se non siete avvezzi alla filosofia, potete sempre usare l’immaginario cinematografico.
Nel film Arrival di Denis Villeneuve si narra di una linguista che cerca di capire il linguaggio di una coppia di alieni, ma il problema non è di traduzione – a parola aliena corrisponde parola umana – ma di senso: se l’alieno dice “dovete usare attrezzo per capire”, attrezzo può essere reso con utensile, strumento, arma, dispositivo che sono quattro universi di senso differenti, alieni costruttori (utensile), alieni creativi (strumento), alieni bellicosi (arma), alieni progettisti (dispositivo). Gli alieni parlano, noi li traduciamo ma non li capiamo.
Sembra fantascientifico e bizzarro? Forse non lo è. Avete letto della notizia di quelle intelligenze artificiali di Facebook che hanno sviluppato un linguaggio proprio per poter comunicare? Nel 2017 due bot, software intelligenti, Bob e Alice, sviluppati da Facebook per simulare delle semplici interazioni, durante una serie di esperimenti messi a punto dai ricercatori della popolare piattaforma, hanno cominciato ad interagire sviluppando un linguaggio in maniera autonoma che sulle prime era inglese e poi via via è diventato uno slang che somigliava all’inglese ma che contravveniva a tutte le regole previste dalla lingua.
In pratica avevano trovato una via migliore per comprendersi imparando l’uno dall’altro usando l’inglese come riferimento ma “perfezionandolo” rispetto alla propria Weltanschauung. D’altra parte perché due macchine dovrebbero usare una lingua umana? Sarebbe come dire che due persone per interagire devono usare il linguaggio macchina (sicuramente non python, troppo vicino alle forme linguistiche umane). Le macchine sono delle tecnologie sviluppate dall’uomo che però l’uomo non comprende fino in fondo, per questo è necessario sviluppare quello che in linguistica si chiama un pidgin, ovvero una lingua semplificata per velocizzare gli scambi (solitamente commerciali) tra due comunità linguistiche che parlano un idioma diverso.
Pidgin ovvero una lingua semplificata per velocizzare gli scambi (solitamente commerciali) tra due comunità linguistiche che parlano un idioma diverso
Quando le macchine sviluppavano procedure, il pidgin era l’interfaccia, quando le macchine sono entrate in rete ed hanno usato i big data, il pidgin sono stati le API, adesso che le macchine stanno diventando intelligenti, il pidgin potrebbe essere una neolingua sviluppata in autonomia dall’interazione con questi dispositivi. Conviene tenere sott’occhio questa evoluzione, perché non è detto che la Weltanschauung dell’essere umano resti dominante: non vorremmo che a un certo punto saremo costretti ad imparare la lingua delle IA per poter interagire con loro, giusto? Già dobbiamo fare i conti con la maledizione della torre di Babele, meglio che questa maledizione non diventi computazionale.